Accompagnare l’esistenza

L’approccio educativo nelle strutture del Progetto Residenzialità del Comune di Roma

Mario Armellini1

Accompagnare l’esistenza. Questa è la semplice e complessa realtà del nostro lavoro.

Fausto Giancaterina (2006, 20)

1L’autore è Ed. Prof. e Responsabile di Casa Dei Girasoli, la prima casa-famiglia nata all’interno del Progetto Residenzialità. L’articolo è stato pubblicato su “Appunti”, Bimestrale del Gruppo Solidarietà (Grusol), 6 (185) nov-dic 2009, pp 18-24.

Il Progetto Residenzialità

Il Progetto Residenzialità, avviato nel 1998, oggi conta 54 strutture che ospitano un totale di 397 adulti con disabilità, in particolare con Ritardo Mentale (RM).

Il Progetto, che si inserisce in una più ampia rete di servizi per utenti disabili, è uno dei frutti del mutamento di prospettiva culturale che ha permesso il passaggio da una concezione meramente assistenzialistica del servizio sociale ad una concezione socio-educativa centrata intorno all’idea del diritto al benessere. Si tratta di un processo che è giunto a definire un nuovo approccio alla persona con disabilità e che ha sviluppato nuove prassi e concetti come quelli di presa in carico e di qualità della vita producendo strumenti innovativi come l’ICF (OMS 2001), dove non si parla più di handicap ma di partecipazione (Croce 2007).

Nel modello bio-psico-sociale adottato dall’OMS, lo stato di benessere riguarda la persona nella totalità delle sue manifestazioni biologiche, psicologiche e sociali. La salute viene definita come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non solo assenza di malattia o infermità”. Pertanto, le conseguenze di una condizione di salute vanno considerate in termini di funzionamento. “La nuova classificazione pone come centrale la qualità della vita delle persone affette da patologia e permette di evidenziare come convivono con la loro condizione e come sia possibile migliorarla affinché possano contare su un’esistenza produttiva e serena” (Leopardi M., cit. in Giancaterina 2006, 78)

Le parole chiave della nuova classificazione sono attività e contesto. Il termine attività sta per capacità d’azione o autonomia, mentre il contesto (inteso in senso ampio, cioè scuola, famiglia, servizi, politiche sociali, ecc.) è il luogo dell’azione che può inibire o facilitare la competenza ad agire. Se la disabilità non è più la caratteristica di un individuo, ma piuttosto la risultante di una complessa interazione di fattori, molti dei quali riguardano l’ambiente, allora parlare di salute per le persone disabili significa parlare non tanto di “bisogni assistenziali”, quanto di sostegno alla loro capacità d’azione in rapporto ai loro bisogni e al contesto in cui vivono (Giancaterina 2006, 77-81). Depatologizzata la sua condizione, per la persona disabile diventa possibile, e necessaria, una progettualità educativa, la possibilità cioè di “esser tratto fuori”, nel senso etimologico del termine “educare” (ex-ducere), da una condizione che gli impedisce di crescere e di vivere una vita qualitativamente accettabile.

Su queste fondamenta culturali nasce il Progetto Residenzialità e, con esso, le nostre Case-Famiglia.

La specificità del lavoro sociale

La spinta culturale che ha prodotto radicali mutamenti nella lettura della disabilità e del sistema del welfare, ha creato al contempo nuove figure professionali e sollecitato la ridefinizione di figure preesistenti, rilanciando lo sforzo teorico di delineare la peculiarità del lavoro sociale rispetto al modello sanitario.

Nella sua essenza, il lavoro sociale si distingue da tutte altre professioni d’aiuto perché si fonda proprio sulla presunzione di una “capacità d’azione” dei soggetti ai quali si rivolge. L’operatore sociale non si trova dunque di fronte pazienti passivi, ma soggetti capaci d’azione, qualunque sia la loro condizione (Folgheraiter 1999, 20).
Porre al centro della propria pratica professionale la capacità d’azione di chi ufficialmente non ne ha, significa superare il concetto di utente e di esperto e rinunciare all’idea che l’operatore abbia uno schema d’azione “tecnico” predefinito, perché la complessità di una persona mal si adatta ad essere ridotta a facili linearità deterministiche.

Un ulteriore elemento di specificità del lavoro sociale è dato dal concetto di lavoro di Rete. Quando un operatore sociale incontra un soggetto, incontra in realtà una rete di soggetti che interagiscono. Un problema sociale, perciò, non è mai un singolo individuo in difficoltà, ma una dinamica relazione complessa tra diversi attori. Il lavoro con questo soggetto diventa allora un lavoro indirizzato verso la sua rete naturale che già opera per conto suo, in forma più o meno cosciente ed organizzata. Il lavoro sociale è, pertanto, anche un lavoro di rete intenzionale finalizzato ad ottimizzare le risorse della rete naturale del soggetto, teso ad attuarne le potenzialità. Viene quindi mantenuto un focus sulla dimensione sociale della persona, sulla rete sociale di cui fa parte. La capacità di curare le relazioni, di stare nella relazione, sulla relazione, che è “la realtà del mondo sociale” (Folgheraiter 1999, 208), è pertanto competenza fondamentale e specifica dell’operatore sociale.

Il lavoro sociale non si focalizza sugli aspetti specialistici e dunque sulle specifiche patologie o carenze. E non identifica mai la persona con la patologia o il problema che l’affligge. In questa ottica, Tizio non è disabile, esattamente come Caio, con diagnosi di schizofrenia, non è schizofrenico. O Sempronio, che ha una bronchite cronica, non è bronchitico. In questa logica, potremmo dire che i disabili esistono solo nella visione sanitaria o assistenzialistica. In una dimensione socio-educativa, infatti, esistono persone, non disabili.

Il lavoro sociale, che si proietta nell’azione possibile, invece di soffermarsi sul problema in sé, è caratterizzato da una sorta di pensiero positivo che guarda ai punti di forza più che alle carenze1.

Benessere ed empowerment

L’intervento nelle nostre strutture si muove tra due poli: assistenziale e educativo, tra logica sanitaria (curing), assimilabile a quella assistenziale, e logica sociale (caring), che è quella del prendersi cura “secondo reciprocità” (Folgheraiter 1998, 35, Cfr. Giancaterina 2006, 57). Due logiche essenziali, di fatto inseparabili ma profondamente diverse tra loro. Mentre la logica del curing è specialistica e sostenuta da professioni forti (quelle sanitarie, ultra specializzate), la logica del prendersi cura (care) è sostenuta da professioni “deboli”, evita lo specialismo e interviene sul benessere complessivo della persona (Folgheraiter 1998, 88).

L’operatore sociale incontra sempre soggetti attivi, fonte di azione dotata di senso, mai oggetti passivi d’intervento. Quanto più la persona ha parte attiva nel curare i propri bisogni, tanto più è nelle condizioni di esperire benessere. Si tratta di una consapevole o inconsapevole soddisfazione nel padroneggiare la propria condizione, nel poterla dominare in qualche modo o nel darne un senso accettabile.

E’ il concetto di empowerment, cioè il “presumere negli altri capacità di azione e lavorare per sostenere e sviluppare (enabling) capacità preesistenti, anche se basse o addirittura prossime allo zero” (Folgheraiter 1999, 22). Aiutare, per l’operatore sociale, vuol dire essenzialmente riconsegnare al soggetto la sua libertà e la sua responsabilità (Natoli 1999, 44).

Professioni del sociale

I due cardini delle professioni sociali sono il mestiere di Assistente Sociale e quello di Educatore Professionale. E’ possibile definirne le specificità a partire dal concetto centrale del lavoro sociale che è la capacità di azione.

La capacità d’azione (o autonomia) può essere disaggregata in tre stati diversi tra loro interdipendenti: autosufficienza (autonomia basilare), autorealizzazione (autonomia superiore), eterorealizzazione (autonomia sociale) (Folgheraiter 1998, 129).

Quando il deficit di azione è già rilevabile, ci si può adoperare per circoscriverlo o compensarlo (assistenza), o si può cercare di ridurlo attraverso l’apprendimento di competenze, abilità e atteggiamenti deficitari (riparazione). Quando il deficit non si è ancora evidenziato si può agire per evitarlo attraverso il rafforzamento di competenze e di abilità già presenti (prevenzione) o insegnandone delle nuove (promozione).

In estrema sintesi, si può dire allora che il servizio sociale predispone progetti per la gestione di situazioni contingenti, collocandosi entro l’orizzonte dell’assistenza (Assistenti Sociali), mentre l’educazione sociale sviluppa progetti per il cambiamento personale (Educatori Professionali) (Folgheraiter 1998, 150). La dimensione educativa definisce “il processo attraverso cui si forma pezzo su pezzo la personalità, e dunque il cuore del benessere individuale” (idem). Il cambiamento è il paradigma fondamentale dell’evento educativo (Demetrio 1990, 32).

Nell’esperienza delle nostre Case, che possono essere dirette sia da un Assistente Sociale che da un Educatore Professionale, i confini tra questi due profili professionali tendono a sfumare in quanto nascono e vivono entro un’ottica squisitamente educativa e pertanto si muovono sull’intera gamma della capacità d’azione delle persone che le abitano. Forse è per questo che i colleghi Assistenti Sociali che dirigono una buona metà delle Case del Progetto col tempo son diventati (mi perdonino) sempre di più “Educatori”.

Progettare con

In base al concetto di “funzionamento globale e multidimensionale” adottato dall’OMS, “la gamma delle possibilità di benessere della persona disabile si dilata se si definisce un precoce e adeguato progetto educativo. Tale progetto costituisce l’elemento collante che orienta tutti gli interventi, anche specialistici, tesi a superare le difficoltà derivanti da una riduzione intellettiva o da un assetto psichico…“ (Giancaterina 2006, 93-94).

Strumento principe di ogni azione educativa, l’attività progettuale è il “luogo dell’immaginazione, della creatività pedagogica” (Palmieri 2006, 72) che investe la totalità e la centralità della persona (Zaghi 1995). Nella dimensione processuale del progettare educativo, idee, azioni e risultati sono in relazione tra loro in modo complesso e chi ne tiene le fila, l’Educatore e con lui l’Equipe di lavoro, deve essere in grado di leggere questa complessità e governarla in itinere. La progettazione non è dunque da intendersi come il classico momento della stesura di una resoconto annuale in cui si tirano somme e si tracciano linee programmatiche, ma come un lavoro ininterrotto che rende quello dell’Educatore un ”mestiere definibile come una pratica riflessiva” (Prada 2004, 41).

Il progettare educativo è sempre un lavoro condiviso e partecipato tra i soggetti coinvolti. Esso tende a ricostruire non un profilo clinico ma una biografia completa e viva della persona, una storia che si arricchisce, e svela sempre nuovi significati nel procedere del cammino educativo (Zaghi 1995, 76). Il Progetto Educativo, sempre pronto a ridefinirsi in itinere in base alla riflessione sull’esperienza, ha a che fare col prendersi cura delle potenzialità esistenziali che ogni soggetto può scoprire solo facendo esperienza di sé, solo esplorando.

Quella esplorativa è la metafora per eccellenza della dimensione educativa (Prada 2004). L’Educatore, professionista di una “pedagogia mediante ricerca” (Mustacchi 2000, 82), è un esploratore di territori nuovi, di possibilità individuali e sociali, in una ricerca incessante sul campo. Tale dimensione esplorativa, radicata nel confronto incessante con l’altro, è forse alla radice della “debolezza” dell’educatore, come di altre professioni del sociale, data dall’impossibilità di accedere all’altro con strumenti meramente tecnici.

Tale debolezza, però, quando si tratta di lavorare con persone e non con cose, è in realtà un punto di forza (Garzone 2000, 69). Anche perché “non ci sono ricette per poter agire nell’incertezza. Insisto, si tratta di un’arte. Richiede un intervento leggero, e un’arte più vicina a quella del giardiniere che a quella dello stratega militare, il giardiniere è più umile del militare, non crede di cambiare la natura, si accontenta di aiutare con delicatezza la crescita dei germogli” (Zibechi, in Latella 2004, 77).

Elementi di criticità:comorbilità tra RM e problematiche psichiatriche

La quantità di attori e saperi in campo, l’intreccio indissolubile di problematiche e di componenti relazionali, sanitarie e socio-educative, la diversità di personalità, interessi e bisogni rende le nostre Case Famiglia esempi di quella complessità che l’educatore è chiamato ad abitare e della quale, tuttavia, è costretto a segnalarne la criticità.

La maggioranza dei nostri residenti presenta quadri complessi dove a forme di disabilità intellettiva, unite spesso a forme di disabilità motoria, si associano problematiche psichiatriche e sanitarie destinate ad aggravarsi con l’invecchiamento2. E’ del resto noto come nel RM sia più alta la probabilità che vi siano associati patologie neurologiche e compromissioni neuromuscolari, visive, uditive e cardiovascolari3. Le persone con RM presentano una prevalenza di disturbi mentali da tre a quattro volte superiore rispetto alla popolazione generale.

La diffusa comorbilità tra ritardo mentale e aspetti problematici di tipo psichiatrico è un punto critico su cui vorremmo richiamare l’attenzione. Nelle diagnosi di molti nostri utenti si parla ancora di “psicosi di impianto” (o “innesto psicotico”) invece di “comorbilità”, termini che suggeriscono una gerarchia tra disturbo primario e secondario che conduce ad una sorta di sottovalutazione del dato psicopatologico. Lavoriamo con queste persone “come se” i loro aspetti psichiatrici fossero qualcosa di secondario o di marginale. In realtà non lo sono. Tuttavia, la formazione attuale degli operatori sembra del tutto inadeguata rispetto a tali problematiche. Un operatore adeguatamente formato gestirebbe meglio le situazioni critiche, avrebbe strumenti per ridurre il peso emotivo e lo stress che il confronto con il disagio psichico comporta, sarebbe più preciso nell’osservazione e perciò aiuterebbe anche lo psichiatra referente del servizio – che in genere ha poco tempo per seguire tutti gli utenti che ha in carico – a fare meglio il suo lavoro.

Elementi di criticità: l’invecchiamento degli utenti delle case famiglia

L’invecchiamento si accompagna spesso a forme più o meno accentuate di decadimento cognitivo, con conseguente perdita di abilità funzionali nella vita quotidiana. È noto come nei soggetti con Ritardo Mentale il decadimento legato all’invecchiamento tenda ad essere più rapido e più precoce rispetto alla popolazione tipica. Nonostante ciò, “si deve rilevare come, di fatto, si sia poco preparati per assicurare interventi in grado di contenere queste forme di decadimento e permettere il mantenimento di un buon livello di qualità della vita. Insufficientemente strutturata risulta essere la rete dei servizi che dovrebbe concretamente supportare la persona con disabilità mentale e al sua famiglia” (Cottini 2008, 11).

Le persone con RM che conducono la loro esistenza nelle nostre Case godono indubbiamente di una condizione di privilegio rispetto a coloro che non possono usufruirne. Tuttavia, anche nelle case famiglia il problema dell’invecchiamento dei residenti si pone già da tempo e non ha ricevuto una risposta adeguata.

In una delle strutture dove lo scrivente svolge la funzione di Responsabile, l’età media dei residenti è di 56,5 anni. Non abbiamo potuto usufruire dei dati relativi all’intero Progetto Residenzialità perché non ci sono stati mai forniti. Disponiamo però dei dati relativi ai 98 utenti che nel febbraio del 2010 vivevano nelle strutture presenti nel territorio della ASL RM-E. Ebbene, qui l’età media è di 51 anni circa, mentre gli utenti con età superiore ai 40 anni è pari al 74%. Circa i 50% degli utenti ha un’età superiore ai 48 anni, mentre il 42% ha un’età compresa tra i 50 anni e i 74 anni.

Dal momento che nel RM l’invecchiamento si accompagna a forme più o meno accentuate di decadimento cognitivo, con conseguente perdita di abilità funzionali alla vita quotidiana e all’adattamento all’ambiente (Cottini 2008, 17), e che tale decadimento inizia prima che nella popolazione tipica, l’età media dei nostri residenti starebbe ad indicare la necessità di mettere in campo – immediatamente – adeguate strategie preventive. Tuttavia, tale attività preventiva tarda a partire, e non tanto a causa della cronica mancanza di risorse che affligge il nostro settore, o per la mancata collaborazione con il comparto sanitario, quanto per la sottovalutazione o mancata percezione del problema.

Prendersi cura degli operatori

Gli operatori delle nostre Strutture affrontano un lavoro che richiede una vasta gamma di abilità e competenze tecniche e relazionali. Essi devono, al contempo, mandare avanti la casa nelle sue necessità quotidiane, saper lavorare in equipe, avviare momenti di animazione, fronteggiare problematiche di tipo psichiatrico, ascoltare e confortare nei momenti di difficoltà. Infine, e di conseguenza, saper metabolizzare forti pesi emotivi.

Di solito la componente emotiva delle professioni assistenziali non viene calcolata come un’attività vera e propria. Le istituzioni, pubbliche e private, dovrebbero invece considerarla centrale rispetto ai soliti parametri di efficienza ed efficacia del servizio. Anche perché è piuttosto improbabile che l’intervento di un gruppo di lavoro stanco e demotivato veleggi verso i lidi della auspicata “Qualità”.

Si tratta di capire l’importanza della formazione continua, l’unica in grado di stimolare la riflessività nell’azione. Inoltre, la creazione di uno “spazio per pensare, ove digerire i conflitti e le frustrazioni” resta la miglior difesa dal rischio di burn-out (Blandino 2005, 76). Da questo punto di vista, la supervisione è elemento vitale per il gruppo di lavoro, perché favorisce il processo di rielaborazione dell’esperienza professionale (Simeone 2003, 75-80).

Offrire supervisione e formazione agli operatori significa dar loro la possibilità di prendersi cura del principale strumento di lavoro a loro disposizione: se stessi4. Spesso, però, da parte degli Enti Gestori si nota una colpevole sottovalutazione di questo cruciale aspetto del lavoro. Basti pensare che moltissimi Enti non pagano neanche le ore di riunione dell’Equipe, o ne pagano un numero insufficiente, né pagano le ore di supervisione (per non parlare della formazione continua).

Qualificazione professionale

Nonostante la delibera del 4 agosto 2006, n.518, dellaRegione Lazio, nella quale si definivanole linee guida per l’attivazione dei corsi di formazione e riqualificazione per Operatori Socio-Sanitari (OSS), a tutt’oggi questi corsi non sono stati ancora attivati. In questa situazione, le strutture sono spesso costrette ad assumere personale non formato.

Il mercato offre qualche corso privato di qualificazione e riqualificazione in OSS dai costi esorbitanti (si va dai 3 ai 4000 euro). Tutto ciò accresce il disagio delle equipe e influisce negativamente sulla qualità complessiva della prestazione.

Di fatto, le nostre strutture presentano caratteristiche tali che richiedono agli operatori che vi sono impegnati un peculiare mix di competenze tecniche e personali del tutto differente dal bagaglio posseduto oggi da AD, OSS e simili.

Tutto ciò induce ad auspicare la creazione di percorsi formativi specifici per gli operatori delle nostre Case.

A questo proposito, il Coordinamento dei Responsabili delle Case Famiglia della ASL-RME, nel 2008 propose un percorso formativo specifico per operatori e la creazione di un vero e proprio registro, o albo comunale, di questa figura professionale. A tutt’oggi, l’idea non è stata recepita.

Rette non corrette

Un punto particolarmente critico della nostra esperienza è dato dalle risorse economiche. Da molti anni le rette non vengono adeguate e diventa sempre più difficile reperire risorse per far fronte a tutte le necessità del nostro servizio.

Una delle ricadute più gravi è che questa situazione rende impossibile coprire i costi previsti per l’applicazione del CCNL a tutti gli operatori impiegati. La Delibera del Comune di Roma 135 del 2000 prevede che tutti gli enti accreditati devono rispettare il CCNL, pena la recessione dell’appalto. Nel 2005, dunque cinque anni dopo la delibera, il Comune licenziò il decreto attuativo della legge 135, la delibera 276/05. Le cose, perciò, sarebbero dovute cambiare. Di fatto, però, questo non è accaduto, i contratti di lavoro spesso non vengono applicati e le forme di lavoro precario continuano a proliferare anche nel nostro settore.

Riferimenti bibliografici

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Blandino G., Quando non se ne può più, Animazione Sociale, 4, 2005

Cottini L. (a cura di), Disabilità mentale e avanzamento d’età, Franco Angeli, 2008

Croce L., Nuovi modelli e nuove prassi nella prospettiva della qualità di vita per le persone con disabilità intellettiva, In Mediterraneo senza handicap. Atti del terzo Congresso Internazionale, 2007, pp.73-82

Demetrio D., Educatori di professione, La nuova Italia, 1990

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Folgheraiter F., Teoria e metodologia del servizio sociale, Franco Angeli, 1998

Garzone F., Il sapere e l’umile ignoranza, Animazione Sociale, 1, 2000

Giancaterina F., Come evitare il giro dell’oca dell’assistenza, Franco Angeli, 2006

Giordani B., L’ascolto nella relazione d’aiuto, Animazione sociale 8/9, 1994

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Mustacchi C., Lavoro educativo e ricerca concreta, Animazione Sociale, 5, 2000

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Palmieri C., Dal progetto educativo individualizzato al progetto di vita, Animazione Sociale, 4 , 2006

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Simeone D., La supervisione del lavoro educativo, Animazione sociale, 12, 2003

Sordelli G., Nuovi modi di prendersi cura?, Animazione Sociale, 8-9, 2001

Tramma S., L’educatore imperfetto, Carocci Faber, 2003

Zaghi P., L’educatore professionale. Dalla programmazione al progetto, Armando editore, 1995

1 “Nella logica del lavoro sociale, pur nel quadro di una difficoltà, un problema si risolve perché crescono gli elementi positivi già presenti in esso, non perché si annullano quelli negativi… l’aiuto efficace costruisce sui punti di forza delle persone e delle relazioni, non demolisce i loro punti di debolezza” (Folgheraiter 1998, 80).

2 Sulle problematiche connesse all’invecchiamento di soggetti con disabilità intellettiva si veda Cottini 2008.

3“Gli adulti con Ritardo Mentale presentano l’intera gamma dei disturbi e delle difficoltà della personalità. Non esiste un altro accordo cosi universale fra gli specialisti come quello sull’esistenza dei disturbi di personalità in adulti con Ritardo Mentale a causa del loro diverso processo di sviluppo sia intellettuale che delle funzioni sociali”. (Bouras N. et al., Salute mentale nel Ritardo Mentale. ABC per la salute mentale, per l’assistenza di base e le altre professionalità (edizione italiana a cura di La Malfa G.P., Castellani A., Bertelli M.). L’articolo è reperibile al sito: http://www.wpanet.org/sectorial/mhinretita.html

4 Della fatica del lavoro sociale si parla poco e si fa poco per prendersene cura. Secondo dati presi da un vecchio articolo de “La Repubblica” del 15 novembre 1999, Quelle vite bruciate dal dolore degli altri, di Maria S. Conte, risulta che tra gli operatori impegnati nelle relazioni d’aiuto l’11% ha manifestato sintomi depressivi nell’ultimo anno; il 50% ha avuto o ha difficoltà nel rapporto coniugale; il tasso di suicidi tra gli individui professionalmente impegnati nelle relazioni d’aiuto, è maggiore rispetto alla popolazione in generale; il 60% ha dovuto ricorrere almeno una volta alla psicoterapia; il 10% soffre di un forte senso di isolamento; l’11% ricorre agli psicofarmaci…

 

Categories News | Tags: | Posted on dicembre 5, 2011

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